Comitato Regionale

Emilia-Romagna

Lo sport sotto attacco: dagli attentati in Pakistan alla tragedia di Monaco '72

Il paradosso di uno sport simbolo di unione tra i popoli riconosciuto dai terroristi e snobbato dal governo.

I giocatori del Togo dopo l'attentato ai confini con l'Angoladi Vincenzo Manco

Vicepresidente nazionale Uisp
e presidente Uisp Emilia Romagna


Il 2010 si è aperto con la scioccante notizia, diffusa proprio il primo giorno del nuovo anno, dell'attentato di Lakki Marwat, in Pakistan, che ha visto un kamikaze farsi esplodere durante un'affollata partita di pallavolo causando 95 morti. Una settimana dopo il mondo sportivo e non ha subito un ennesimo trauma quando si è diffusa, l'otto gennaio, la notizia dell'attentato rivolto contro il pullman della nazionale di calcio del Togo in viaggio per partecipare alla Coppa d'Africa; attentato durante il quale hanno perso la vita tre persone dello staff del team togolese. Andando indietro nel tempo e ricercando episodi di attacchi con rivendicazioni politiche rivolti contro rappresentanti del mondo dello sport si trova una storia popolata di numerosissimi casi. Tra questi, è possibile ricordare ancora, nel passato più recente, gli attentati di Giacarta del 17 luglio 2009 contro due alberghi di lusso della città indonesiana che avrebbero dovuto ospitare la squadra di calcio del Manchester United in vista di un'amichevole contro una rappresentativa di stelle locali. Gli attacchi, rivendicati dal terrorista Noordin Mohamed Top di Al Qaeda, pur non essendo riusciti a colpire direttamente i giocatori dei Red Devils costarono la vita a 9 persone. Indietro di questo passo si può arrivare fino alle Olimpiadi di Monaco del 1972, forse l'episodio più tristemente conosciuto per quel che riguarda la violenza terroristica contro lo sport. In quell'occasione un commando di guerriglieri dell'organizzazione palestinese "Settembre Nero" fece irruzione negli alloggi del villaggio olimpico che ospitavano la delegazione israeliana uccidendo subito due atleti e prendendone in ostaggio altri 9. Il tentativo di liberazione degli atleti portato avanti dalla polizia tedesca si concluse con l'uccisione di tutti gli ostaggi, di cinque fedayn e di un poliziotto.

Tali episodi sono segnati da profonde differenze l'uno rispetto all'altro, sia per quanto riguarda le dimensioni degli attacchi che il numero delle vittime, sia per le dinamiche che per i contesti storici e geografici, sia per le rivendicazioni che li hanno accompagnati. Non cambia il "destinatario", se è lecito usare questo termine, di queste violenze: il mondo dello sport con i suoi rappresentanti, ovvero atleti, tecnici, operatori e tifosi. La domanda principale che scaturisce riflettendo su questi episodi è semplice: perché lo sport? La risposta non può chiaramente limitarsi alla riflessione sull'ovvio dato di fatto che le manifestazioni sportive rappresentano un momento di aggregazione di massa che facilita il violento operato di un'azione terroristica con le sue conseguenze di morte e distruzione (come nel caso di Lakki Marwat).

Ancora una volta, dunque: perché lo sport? E ancora non risulta soddisfacente come risposta l'idea che essendo una squadra un simbolo, un elemento riconosciuto di rappresentanza di una nazione, l'attacco portato contro di essa possa essere letto come esplicita dichiarazione di guerra nei confronti del paese che essa rappresenta (come nel caso di Giacarta o della delegazione israeliana a Monaco '72).

Il caso del Togo resta per ora confuso, date le rivendicazioni incrociate del "Fronte di Liberazione di Cabinda - Posizione Militare" (Flec-PM), gruppo minore che per primo si era assunto la paternità dell'attentato, e quelle del "Flec-Fac" (Fronte per la Liberazione dell'Enclave di Cabinda - Forze armate di Cabinda), che per bocca del suo presidente Jean-Claude N'Zita - esiliato in Svizzera - ha parlato di un tragico errore alla base dell'attacco "contro i nostri fratelli del Togo". Ciò non toglie che la nostra domanda, ancora insoluta, sia forse da affrontare riconoscendo sì la lapalissiana concretezza delle risposte precedenti, ma sottolineando in primo luogo come, in ogni attacco terroristico rivolto contro il mondo sportivo, quello che simbolicamente si intende colpire è proprio la capacità dei popoli, in quel momento di ricreazione collettiva rappresentato dalla partecipazione o dall'assistere ad un evento sportivo, di travalicare le barriere ed i confini di appartenenza politica, culturale, economica, sociale e religiosa in virtù del semplice stare insieme.

Lo sport vive questa condizione particolare di strumento e simbolo della facilitazione delle relazioni tra i popoli. In particolare lo sport sociale ha da sempre mostrato la capacità di riannodare i fili dei legami anche internazionali, soprattutto nelle aree geografiche critiche. Il settore internazionale dell'Unione Italiana Sport Per tutti annovera iniziative importanti, che vanno dall'impegno nelle aree di guerra del mondo - attraverso la sua ong Peace Games - ai molteplici progetti di sviluppo sociale attraverso l'attività motoria (tra questi il lavoro in Amazzonia in accordo con il Ministero dello sport dello Stato del Parà, la corsa ciclistica Dakar-Bamako, la corsa urbana Vivicittà che oggi viene ospitata in 25 diverse città del mondo). Al lavoro sul piano internazionale, fatto come detto di cooperazione internazionale e promozione sociale tramite lo sport, si somma poi il lavoro quotidiano sul territorio nazionale finalizzato al miglioramento della qualità della vita delle persone e molto spesso all'azione contro il degrado e la disgregazione di molti realtà del nostro paese. Nonostante l'importanza di tutto questo, noi crediamo che lo sport sociale abbia bisogno di ulteriori e particolari riconoscimenti nelle politiche pubbliche che ancora oggi non ha. È questa una partita che si sarebbe dovuta chiudere con una netta vittoria per lo sport sociale, invece siamo già oltre i tempi supplementari con il rischio di andare ai rigori ad oltranza.

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